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IL DESTINO SEGNATO DELLA NOSTRA CITTA’

IL DESTINO SEGNATO DELLA NOSTRA CITTA’

Un articolo comparso sulle pagine interne della Nuova Venezia di venerdì 30 ottobre mi ha fatto riflettere sulla scarsa efficacia delle mie e nostre azioni contro l’eccesso del turismo di massa. L’articolo si riferiva alla chiusura temporanea di alcuni alberghi-ostello attorno alla stazione ferroviaria di Mestre. C’era un’impressionante fotografia, che riproduco qui sopra: ben quattro di quegli albergoni sono sorti durante gli ultimi tre anni uno accanto all’altro, doni dei sindaci Orsoni (per alcuni permessi ) e Brugnaro (per entusiastici incoraggiamenti). L’articolo riferisce che il totale dei posti letto dei quattro alberghi è di millenovecento. Tre dei quattro sono chiusi in questo momento a causa della pandemia in corso; ma non c’è dubbio che presto o tardi riapriranno, come tanti altri dei palazzi ristrutturati e dei seimila appartamenti della Venezia insulare diventati “locazione turistica”.
Il fatto è che c’è una domanda fortissima di visitare Venezia e che l’unico modo di gestirla sarebbe ripartire da zero o quasi zero, imporre un numero chiuso di posti letto a Venezia e dintorni e limitare gli escursionisti a cifre oggi impensabili, come dieci o quindicimila al giorno.
Ma di fronte a quella fotografia dei due grattacieli-albergo ho capito che non c’è più nulla da fare.
Essi sorgono sulla via Ca’ Marcello, che fiancheggia i binari in uscita dalla stazione di Mestre. Proprio su quella via, tra la stazione e il Cavalcavia, sul terreno dove poggiano le fondazioni degli alberghi, si trovava negli anni cinquanta-settanta nientemeno che un campeggio, vero Nadia Fabris? Lo gestiva il padre di Nadia, Livio Fabris, che noi chiamavamo il signor Livio o più semplicemente “el Chef”. In quel campeggio io ho passato più di dieci estati della mia vita di studente (1956-66 circa), imparandovi il tedesco, servendo allo spaccio, accogliendo gli “arrivi” nel pomeriggio e registrando le “partenze” la mattina. I turni erano di dieci ore al giorno (o la notte) e la paga mille lire al giorno. Per tutta l’estate il campeggio era la mia casa, e lo chef, il “cavaliere” suo padre e anche Nadia sua figlia erano la mia famiglia. Nelle lunghe ore del turno di notte mettevo su l’unico disco in dotazione, “Luis and Ella Again”, e ascoltavo fino a saperli a memoria “Monlight in Vermont”, “Autumn in New York” e l’incomprensibile “Let’s Call the Whole Thing Off”. I treni sferragliavano tutta la notte a pochi metri dalle molte decine di tende, vicinissime le une alle altre, dove riposavano i tedeschi arrivati nelle moto col sidecar o nelle prime Volkswagen, avanguardie dell’esercito che oggi riempie i grattacieli-ostello.
Nessuno potrà far abbattere quegli alberghi, sebbene sia chiaro a tutti gli esseri razionali che quella sarebbe la cosa giusta da fare. E nessuno potrà riportare i palazzi di Venezia alla loro funzione di residenze o centri commerciali. Per molti decenni ancora, forse per secoli, il destino di Venezia è segnato. Quello che noi abitanti possiamo fare è non perderci d’animo e fare il possibile per limitare i danni salvando almeno alcuni angoli di città o alcuni complessi ancora salvabili come l’Arsenale, gli ex gasometri o parti della Giudecca.

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